Perché scrivere poesie? Le risposte di Rilke
Scrivere a scopo "terapeutico" significa sentire la necessità di sciogliere alcuni nodi che si sono creati nel tuo passato. Si tratta spesso di lesioni, sofferenze patite, dolori opprimenti che di tanto in tanto riemergono. Rivisitando questi avvenimenti, con il cruccio emotivo del poeta, si cerca una ragione, un motivo per cui tali accadimenti si sono verificati. Il semplice fatto di "ricordare" e "trascrivere" le proprie "emozioni" secondo un preciso "ordine" poetico, permette di allentare la presa sul passato. In un certo senso, ci si libera di un peso, perché comporre poesie significa fermarsi e riflettere, infine meditare. Scriveva il noto poeta tedesco Rainer Maria Rilke nella sua celebre "Lettera a un giovane poeta":
"Se la vostra vita quotidiana vi sembra povera, non l'accusate; accusate voi stesso, che non siete assai poeta da evocarne la ricchezza; chè per un creatore non esiste povertà nè luoghi poveri e indifferenti".
Questo tema mi sembra molto importante: la "ricchezza". Il poeta è quella persona che riesce a "dare ricchezza" a tutti quegli avvenimenti dell'esistenza che per la persona "normale" appaiono come banali e noiosi, senza senso. Già scrissi anch'io in una breve composizione poetica:
Se tu or mi chiedessi:
"Qual è, poeta, il tuo mistero?",
risponderei senz'altro:
"Lo stupore per un nonnulla!".
(luglio 2002)
Sotto questa luce, scrivere poesia significa "valorizzare" l'esistenza in ogni suo piccolo e apparentemente insignificante aspetto: una formica che spinge un granello, una lucertola che sfugge al nostro sguardo dentro un muro, un falchetto che plana sopra le nostre case, il sole che si appisola dietro una nuvola randagia, la luna che illumina ma non riscalda, le stelle che segnano traiettorie, ritraggono animali e disegni, brillano come fiaccole nel cielo, un anziano che risale una strada lentamente, un ragazzo che fila via in bicicletta, un aquilone che si perde nell'azzurro dell'estate... Ogni piccolo avvenimento è accompagnato dallo "stupore" che la sua bellezza evoca. Questa, in fondo, è la formula magica di un poeta: "sapersi stupire di un nonnulla"! Eppure, un buon poeta è mosso da ragioni più profonde, viscerali: sempre nella sua "Lettera a un giovane poeta", Rilke scrisse al suo interlocutore:
"Voi guardate fuori, verso l'esterno e questo soprattutto voi non dovreste ora fare. Nessuno vi può consigliare e aiutare, nessuno. C'è una sola via. Penetrate in voi stesso. Ricercate la ragione che vi chiama a scrivere; esaminate s'essa estenda le sue radici nel più profondo luogo del vostro cuore, confessatevi se sareste costretto a morire, quando vi si negasse di scrivere. Questo anzitutto: domandatevi nell'ora più silenziosa della vostra notte: devo io scrivere? Scavate dentro voi stesso per una profonda risposta. E se questa dovesse suonare consenso, se v'è concesso affrontare questa grave domanda con un forte e semplice 'debbo', allora edificate la vostra vita secondo questa necessità".
Un "vero" poeta è colui che edifica la sua vita secondo questa necessità. Il poeta è dunque colui che sente la "necessità" pressante di scrivere, di raccontare, elaborare, creare, riflettere, meditare. Sente che non può sfuggire al suo destino di scrittore, sente che non può vivere senza la poesia, sente che "deve" scrivere, indipendentemente, poi, dalle ragioni (terapeutiche o contemplative) per le quale lo fa.